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Le ragioni del voto, dell’astensione e delle candidature

di Alessandro Fusillo

Mentre imperversa la campagna elettorale di Ferragosto fervono le discussioni su cosa fare il prossimo 25 settembre quando, come si dice, i cittadini saranno chiamati alle urne. Apro una parentesi, è curioso che il contenitore delle schede elettorali e quello delle ceneri dei defunti abbiano lo stesso nome. Vi è, credo, un sottile sarcasmo in questa omonimia che ci dà prova, ove mai ve ne fosse bisogno, che con le elezioni si celebra un funerale, quello della nostra libertà. Ma veniamo al punto. Alcuni hanno esortato a disertare le elezioni mentre altri stanno organizzando liste e candidature ripromettendosi – e promettendo agli elettori – di cambiare il paese oppure, per quelli cui il paese sta bene così com’è, per continuare sulla stessa linea tenuta sino ad ora.

Iniziamo dalle diverse posizioni che si stanno delineando.

Quella prevalente è favorevole al voto. I motivi sono quelli che conosciamo da decenni se non secoli di propaganda: chi non vota fa il gioco del sistema perché favorisce i poteri consolidati e la vittoria dei peggiori (destra, sinistra, centro, sovranisti, e via elencando a seconda delle preferenze politiche); il voto è un diritto e dobbiamo esercitarlo (la contraddizione insita in quest’argomento sfugge solitamente a chi lo propone); qualunque sia la percentuale dei votanti le elezioni sono valide ed i seggi saranno distribuiti solo alle forze politiche che hanno ottenuto voti per cui l’astensione nelle sue varie forme è inutile; chi vuole cambiare le cose può farlo in un solo modo, armarsi della matita ministeriale e vergare una bella “x” sul partito che gli genera il minor grado di repulsione; chi non vota non avrà poi diritto di lamentarsi se le cose resteranno uguali o se non andranno come desiderato. Ci sono poi le invocazioni quasi liriche ai valori della democrazia, al giudizio del popolo che si celebra nel rito elettorale, alla volontà generale, alla libertà che è partecipazione e a tutto il catalogo delle giustificazioni leggendarie del sistema in cui viviamo. La politica e la sovranità si nutrono di consenso e questo si alimenta di narrazioni mitologiche. Tempo addietro i governanti erano dèi o rappresentanti degli dèi (o dell’unico dio), oggi la narrazione è più complessa: il sovrano, cioè il titolare del potere assoluto (legislativo, esecutivo e giudiziale) sarebbe nientemeno che tutto il popolo e un simile potere verrebbe esercitato, faute de mieux, eleggendo dei rappresentanti in un’assemblea, la quale poi deciderebbe a maggioranza l’approvazione delle leggi cioè delle regole valevoli per tutti, anche per la minoranza o per quelli che non hanno votato. A seconda dei sistemi i governati possono eleggere anche alcuni dei governanti (come il presidente in Francia o negli USA) oppure la delega ai rappresentanti comprende anche il potere di approvare il cosiddetto esecutivo. Di fatto, che l’operato dei diversi organi politici possa rispecchiare, anche solo vagamente, la volontà di milioni di individui appare assai dubbio, ma questo, così si dice, è il miglior sistema possibile e non esistono alternative.

Il fronte opposto, quello del non voto, sottolinea che non c’è alcun candidato o partito dotato di credibilità o anche solo di decenza, che non vi è garanzia che le promesse elettorali vengano mantenute, che il voto è sostanzialmente inutile visto che i parlamentari hanno poteri molto limitati e non sono quelli che prendono le decisioni, al più le approvano volenti o nolenti. Non mancano poi la stanchezza, l’insofferenza, il disgusto per un sistema marcio, corrotto, asservito al tornaconto personale dei politici e ad interessi occulti che muovono le segrete cose servendosi della macchina dello stato come di uno strumento. Molti semplicemente rifiutano di prendere parte a quella che viene percepita come una colossale presa per i fondelli e non vogliono rendere omaggio al padrone di turno partecipando alla farsa elettorale.

Poi ci sono le voci più o meno avventuriste che sostengono di avere scoperto tra le maglie del sistema qualche infallibile trucco per cui non votando in massa, il che già accade da lustri, oppure presentandosi al seggio ma rifiutandosi di toccare e prendere in consegna le schede elettorali si potrebbero invalidare le elezioni. Purtroppo, non è così; il sistema è abbastanza accorto da far sì che, qualunque cosa facciano gli elettori, andrà avanti tal quale. D’altro canto, se votare facesse la differenza non ce lo farebbero fare, come affermava l’aforisma forse apocrifo ma certamente efficace di Mark Twain.

Cerchiamo dunque di fare un po’ di ordine nella vasta congerie di voci e di opinioni, nella nebbia della battaglia che rende difficile capire cosa stia succedendo. Chiunque si avvicini al voto con un minimo di realismo ha chiari alcuni punti che merita ricordare. Il rapporto tra i cittadini e la macchina dello stato, il Leviatano oppressivo che anche i meno attenti hanno potuto conoscere in tutto il suo orrore negli ultimi 800 giorni si identifica nell’interazione con un nemico, con un’entità ostile. L’organizzazione statale occupa la società civile con la sua presenza sempre più ingombrante e soffocante. Lo stato, beninteso, è un avversario molto potente, pericoloso e intenzionato ad arrecare il maggior possibile danno a chiunque. Pertanto, l’atteggiamento più saggio è lo stesso che potremmo tenere con la criminalità organizzata, fatte le dovute proporzioni in considerazione della relativa innocuità di qualsiasi cosca o cartello di malfattori rispetto ad un’organizzazione micidiale come la repubblica italiana. Ciò che si fa per difendersi dallo stato rientra dunque nel concetto di legittima difesa e sarà bene seguire la saggezza dell’antico adagio che vuole opporre a un brigante un brigante e mezzo.

In una situazione siffatta si può anche scegliere di votare non essendovi, da parte dell’elettore, nulla di immorale né nell’esprimere il voto né nel rifiutarsi di farlo. Questa era la posizione del grande Murray Rothbard (vedi qui e qui): non solo ciascuno ha diritto a difendersi dallo stato con i mezzi reputati più opportuni, ivi compreso il voto, ma il cittadino votante non può essere ritenuto complice di un sistema coercitivo e violento dal momento che il cancro dell’organizzazione pubblica statale avviluppa come una gigantesca piovra qualsiasi aspetto della vita quotidiana sicché nessuno può dirsi davvero fuori dalle grinfie del mostro che si è impossessato di tutte le relazioni sociali.

Si prenda il caso degli avvocati, tra i quali il sottoscritto, che pure negli ultimi due anni hanno combattuto per difendere le libertà dei cittadini. È vero che lo hanno fatto ma pur sempre nell’ambito di un sistema che attribuisce allo stato il monopolio della giurisdizione e il controllo su tutti i magistrati che sono suoi dipendenti. Anche difendersi in giudizio potrebbe, quindi, essere considerata una forma di legittimazione del sistema al pari del voto mentre, se correttamente intesa ed esercitata, l’attività degli avvocati rientra nel concetto di legittima difesa del cittadino dallo stato.

Sotto un diverso profilo è bene rapportarsi alle elezioni con sobrietà e distacco. Una visione disincantata della realtà italiana convince l’osservatore non soggiogato alla propaganda governativa che votare è perfettamente inutile. Non solo perché gli eletti non sono in alcun modo vincolati a quanto promettono in campagna elettorale, ma soprattutto perché tra i diversi organi che compongono la struttura dello stato italiano il parlamento conta ben poco. Ne sono prova almeno gli ultimi undici anni (a partire dal governo Monti) che hanno visto avvicendarsi parlamenti asserviti ai capi dei vari partiti che hanno in mano il potere di ricandidare onorevoli e senatori o di escluderli dalla vita politica e che quindi ne possono dirigere il voto. In ogni caso il parlamento è ostaggio, attraverso il meccanismo del voto di fiducia, della volontà del presidente della repubblica e del “suo” presidente del consiglio. Pertanto, a meno che una delle forze cosiddette antisistema non guadagni la maggioranza assoluta dei due rami del parlamento nulla potrà cambiare. Tra l’altro, di forze antisistema tese a rinnovare dal profondo le storture della repubblica delle banane italiche ce ne sono state non poche negli ultimi decenni e tutte hanno fatto la medesima ingloriosa fine di essere fagocitate dalla grande ameba dello stato, che, come diceva Mefistofele nel Faust di Goehte a proposito della chiesa, digerisce di tutto.

Così stando le cose, il problema del voto si riduce al fatto che molti sono stanchi di essere presi in giro alle elezioni e semplicemente non vanno a votare. Fatta eccezione per una minuscola ripresa nel 1987 è dal 1976 che l’affluenza alle urne è in costante declino e nel 2018 non ha raggiunto il 73%. Auguriamoci che scenda ancora e che l’assenza delle persone dalle cabine elettorali sia il segno tangibile del fatto che in tantissimi non sono più disposti a partecipare a questa indegna sceneggiata.

Ben diversa è la posizione dei candidati. Chi aspira ad essere eletto in parlamento desta, francamente, non poche perplessità. Anzitutto perché incasserà un pingue stipendio versato con i denari estorti a chi lavora e produce. L’indennità parlamentare non dovrebbe esistere, come era, peraltro, espressamente previsto nello Statuto albertino e come fu sino al 1912, anno in cui i parlamentari iniziarono a pagarsi mascherando lo stipendio sotto le mentite spoglie di un rimborso spese. La costituzione repubblicana sdoganò poi lo stipendio dei politici di professione. La retorica della democrazia interviene a questo punto sottolineando con toni commossi che se non ci fosse lo stipendio allora i poveri e i derelitti non potrebbero candidarsi perché non disporrebbero di sostanze proprie sufficienti per pagarsi l’attività parlamentare oppure che i parlamentari senza stipendio sarebbero vittime della corruzione più sfrenata. Ora, a prescindere dal fatto che i poverelli in parlamento non ci sono mai andati né prima né dopo l’istituzione dell’indennità e che i politici sono corrotti anche oggi che incassano grasse prebende, il problema ha una soluzione facilissima. I candidati dovrebbero farsi pagare dai loro elettori. Chi è tanto entusiasta di un partito o di un suo rappresentante ben potrà con una piccola donazione contribuire a mantenere il suo campione mentre sfoggerà le sue doti oratorie nelle aule di Montecitorio o Palazzo Madama. Fondazioni, associazioni e comitati, potranno essere facilmente utilizzati per provvedere ai bisogni dei rappresentanti del popolo senza pesare sulle tasche di chi non li vota o di chi non vota affatto. Ma l’indennità parlamentare è il minore dei problemi.

Infatti, chi si candida a fare il parlamentare propone ai malcapitati elettori di installarlo come legislatore, come decisore, di regolatore della vita altrui. Le persone normali si accontentano di regolamentare la vita propria ed interagiscono con gli altri sulla base di rapporti di amicizia, familiari o contrattuali, non aspirano a impicciarsi degli affari altrui. Chi vuole interferire nelle decisioni degli altri è fondamentalmente un sociopatico, una persona che ha difficoltà a gestire i rapporti sociali su base paritetica e desidera imporre la sua volontà, se del caso mediante l’uso della violenza, sugli altri esseri umani. Ed è precisamente per questa ragione che la legge, come ricordava Bastiat, è ormai pervertita. Dovrebbe avere quale unico contenuto possibile e lecito l’organizzazione collettiva della legittima difesa e si è trasformata, invece, nello strumento del privilegio, nell’affermazione di un sistema fondato sulla disuguaglianza. Tutto il diritto pubblico, infatti, consente ad un gruppo di persone (governanti, burocrati, polizia, militari ecc.) ciò che sarebbe altrimenti vietato, generalmente dalla legge penale. Basti pensare alla tassazione che corrisponde al furto o all’estorsione, alla guerra che fa il paio con l’omicidio e la strage, alla coscrizione che coincide con la riduzione in schiavitù, alla regolamentazione delle proprietà che è identica al reato di violenza privata. La legge che i candidati si apprestano a creare con il beneplacito degli elettori è lo strumento per rendere schiavi e servi i cittadini. La scritta che campeggia nelle aule dei tribunali, “la legge è uguale per tutti”, è quindi una volgare menzogna e tutto il diritto pubblico ne è la manifesta negazione. Se, quindi, può essere lecito, a fini di difesa, votare per lo psicopatico più conciliante non c’è perdono e non c’è indulgenza per quelli che sgomitano per assicurarsi un posto come regolatori delle vite altrui.

Eppure, molti o alcuni tra coloro che hanno scelto di farlo sono brave persone, animate dal sincero desiderio di dare un contributo per cambiare le cose. Ma non sarà la buona volontà a salvarli. Partecipare ad un sistema fondato sulla disuguaglianza e l’ingiustizia, sia pure con l’intenzione di migliorarlo, non è una giustificazione sufficiente. L’intrinseca inaccettabilità etica delle candidature va ricondotta quindi a due fattori. Anzitutto, all’incapacità che molti hanno di rendersi conto del sistema, del fatto che diventarne un ingranaggio non potrà che costringerli a funzionare come parti di una macchina infernale. Essi sono relegati in un corto circuito del pensiero in cui una sapiente propaganda li ha chiusi impedendo loro di vedere ciò che è evidente e di capire che la vita civile è basata sul consenso e sul contratto, non sulla sopraffazione. In secondo luogo, occorre rendersi conto che la potenza del meccanismo di oppressione in cui gli stati consistono sarà sempre indifferente alla buona volontà dei singoli che si illuderanno di poterne cambiare la natura. Sino a che non si comprenderà che il potere ha trasformato le relazioni sociali in un inesorabile gioco a somma zero non ci sarà forza in grado di abbattere il Leviatano. Eppure, quella forza è semplicemente nelle coscienze di tutti, è lì che si trovano le catene che da sempre il pensiero libertario tenta di spezzare dimostrando che il re è nudo.

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